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Idee di cinema. L'arte del film nel racconto di teorici e cineasti
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L'incanto del mondo. Il cinema di Miyazaki Hayao

Introduzione

L'assegnazione dell'Orso d'oro nel 2002 si è rivelata insolita e curiosa: non solo perché il Festival di Berlino si è concluso con un ex aequo, ma soprattutto perché i film premiati - Bloody Sunday di Paul Greengrass e La città incantata di Miyazaki Hayao - erano un documentario e un film d'animazione, ovvero due forme cinematografiche che spesso vengono indicate come «sottogeneri».
Ulteriore segno di una mutata considerazione dell'Occidente verso il cinema animato in generale e verso quello giapponese in particolare è l'assegnazione del Leone d'oro alla carriera a Miyazaki durante l'edizione 2005 della Mostra del cinema di Venezia. Si tratta di riconoscimenti di cui è impossibile non tenere conto, dal momento che il cinema d'animazione soffre di uno status negativo che lo relega a genere quando in realtà si tratta, più propriamente, di una tecnica cinematografica alternativa alla ripresa dal vivo.
Nell'Elogio del film d'animazione, Alexandre Alexeieff afferma che il cinema è nato dalle mani di Emile Reynaud quando questi disegnava con infinita pazienza le immagini per il suo théâtre optique e che solo in seguito sono arrivati i fratelli Lumière. Per Alexeieff, che fu artista e animatore, il cinema è «un caso particolare di animazione, una sorta di sostituto industriale a buon mercato». a una vita altrettanto difficile. Ma, anche prima di questo accordo, la distribuzione dei film di Miyazaki in Occidente è stata tormentata: l'atteggiamento distaccato del regista rispetto alle platee internazionali è dunque il risultato di alcune esperienze sgradevoli e non una presa di posizione a priori.
Si trovi in questo pensiero la malizia della provocazione o la pura constatazione della verità, resta il fatto che, come se non più della ripresa dal vivo, quella animata è capace di abbracciare tutti i registri narrativi, dal più grossolano al più raffinato. E, come il cinema dal vivo, anche quello animato può vincere i festival. L'unica differenza è che lo fa di rado.
È difficile trovare un precedente al verdetto della giuria di Berlino: in tutti i festival non specialistici si possono premiare film d'animazione, ma di solito ciò avviene in categorie ben distinte dal cinema «in carne e ossa». Se quest'ultimo può permettersi di essere indifferente agli Orsi, ai Leoni, ai Globi, alle Palme e a tutti gli altri trofei dorati, per i lungometraggi animati - soprattutto se non provengono da studi come Disney, Dreamworks, Pixar, Warner o Fox - un riconoscimento ufficiale segna il confine tra l'essere distribuiti nelle sale e l'esserne tagliati fuori. Ma anche quando la via della programmazione cinematografica è aperta, non basta da sola a garantire la visibilità: spesso le copie disponibili sono poche e mal distribuite.
La prima comparsa nelle sale italiane di un film di Miyazaki, ad esempio, è avvenuta nel 2000. Risale infatti a questa data l'accordo stretto tra la Disney e la Tokuma Shoten, una delle più grandi case di produzione e distribuzione giapponesi, per la distribuzione internazionale dei titoli vecchi e nuovi dello Studio Ghibli, lo studio di animazione fondato da Miyazaki insieme al collega e amico Takahata Isao.
Il film che doveva celebrare l'accordo era Principessa Mononoke (1997): distribuito in pochissime copie negli Stati Uniti, uscito in Italia nelle settimane che precedevano la chiusura estiva dei cinema, il film, atteso da molti, è stato visto da pochissimi.
La logica conseguenza tratta dalla Disney è stata che l'Occidente non era ancora pronto per queste pellicole. Solo la potenza dei premi internazionali e del passaparola ha sottratto La città incantata
Esemplare in tal senso è la prima versione statunitense di Nausicaä della Valle del Vento (1984): allo scopo di rendere il film più accettabile per il pubblico anglofono, esso è stato amputato nelle immagini, alterato nei dialoghi e privato delle musiche originali composte da Hisaishi Jo.
Il disappunto prodotto da questa discutibile operazione e le sue conseguenze sono espressi con chiarezza da Takahata Isao: «Da allora non abbiamo più concesso i diritti per l'estero senza esaminare accuratamente le condizioni che ciò implicava. Tutti i film sono cresciuti radicandosi profondamente nella cultura giapponese e non vengono pensati con concessioni per una futura esportazione. Censurarli è peggio che tradirli».
Eppure, ecco subito pronto un altro tentativo di censura. In Tonari no Totoro (1988), Satsuki e la sorellina Mei fanno il bagno insieme al padre: per gli spettatori giapponesi è la rappresentazione di una situazione quotidiana e nel film essa serve a ripristinare la routine dopo il trambusto prodotto dal trasloco. Vedere delle implicazioni morbose in una scena tanto innocente e limpida è in sé perverso, ma per non correre rischi il distributore statunitense avrebbe preferito eliminare la scena insieme a quella in cui le sorelle saltano sui tatami della vecchia casa, perché si tratta di momenti troppo «culturalmente connotati».
L'esperienza di Nausicaä ha spinto lo studio a pretendere che non venisse fatto alcun taglio e così Tonari no Totoro è stato distribuito solo nel 1993. Quelle che sembrano preoccupazioni per l'accoglienza riservata a un prodotto culturale che può presentare contenuti equivocabili o difficili da comprendere celano qui un desiderio appena mascherato di liquidare un potente avversario, e per quanto meschino questo comportamento ha una sua logica.
Meno logica appare invece la situazione verificatasi in Italia nel 2001. Aida degli alberi di Guido Manuli e Momo alla conquista del tempo di Enzo D'Alò, presenti nello stesso momento nelle sale, sono stati costretti a competere con il disneyano Atlantis senza il sostegno di un'adeguata campagna pubblicitaria. In questo caso la disastrosa strategia distributiva è stata determinata, oltre che dalla scarsa pianificazione, da un pregiudizio squisitamente italiano: le sale aprono le porte all'animazione - senza alcuna discriminazione verso i luoghi di provenienza dei film programmati - solo durante le feste comandate, perché Natale e Pasqua sono i periodi in cui si suppone che i bambini vadano al cinema con più frequenza. Dunque i film devono rispettare questo calendario ed essere visibili tutti nello stesso momento, spesso alla stessa ora e in spettacolo unico.
Un titolo che, per temi e immagini, non si adegua al target infantile può essere fatto rientrare in esso attraverso la collocazione nella programmazione pomeridiana, salvo poi esserne allontanato con l'accusa di non proporre contenuti adatti ai bambini. Ma è giusto sottolineare che in molti casi questo è solo un falso problema, perché non tutti i disegni animati sono destinati al mondo dell'infanzia.
Un altro episodio clamoroso ed emblematico è quello che ha portato alla sospensione del primo ciclo di messa in onda su Italia 1 del serial statunitense South Park: partendo dal presupposto che, se i protagonisti sono bambini, anche il contesto deve essere adatto all'infanzia, la serie è stata inserita nella programmazione pomeridiana per essere spostata a quella notturna non appena le creature di Stone e Parker hanno aperto bocca, rovesciando sugli spettatori una cascata di frasi divertenti, feroci e assolutamente irripetibili.
Il già citato Principessa Mononoke è stato invece inserito ripetutamente in programmazioni di cinema per bambini sebbene si tratti di uno dei film più adulti tra quelli diretti da Miyazaki. La complessità della trama, il tono cupo, il crudo realismo di alcune scene di battaglia e i numerosi protagonisti e comprimari possono essere capiti e apprezzati da un pubblico in grado di mantenere la concentrazione e una tensione emotiva costante. Davanti a Principessa Mononoke un bambino di quattro o cinque anni o si spaventa o si annoia, così come si annoierebbe se fosse costretto a vedere Il trono di sangue di Kurosawa.
Indirizzando verso Principessa Mononoke i bambini, si alimenta il pregiudizio del cinema d'animazione giapponese genericamente «violento», pregiudizio che nel caso dei film di Miyazaki in particolare e delle produzioni Ghibli in generale è assolutamente ingiustificato. Nessuno porterebbe un bambino di quattro anni a vedere Salvate il soldato Ryan, ma se lo stesso argomento trattato nel film di Spielberg fosse affrontato in una pellicola a disegni animati non sarebbe una sorpresa se molti genitori italiani accompagnassero al cinema i loro figli sicuri del carattere innocuo e spensierato di ciò che stanno per vedere.
Qualsiasi discorso sul cinema di Miyazaki Hayao deve tener conto della specificità culturale in cui esso nasce, ma anche delle specificità culturali in cui viene visto. Con questa premessa si può ben comprendere come nel caso dell'Italia - dove si produce poca animazione e se ne vede anche meno - la questione sia ancora più articolata che altrove. A partire dagli anni Settanta i bambini italiani sono cresciuti a contatto con due sistemi narrativi e culturali: quello offerto dai «cartoni animati» americani e quello proposto dagli anime giapponesi. Mentre familiarizzavano con i futon e il sake, i geta e i ramen - prima che tutti e quattro divenissero oggetti desiderabili o cibi alla moda -, imparavano soprattutto a vedere sotto una luce nuova storie occidentali che avevano perso la capacità di esprimersi in una lingua corrente.
Ogni traduzione è un tradimento, ma è attraverso questo processo che la narrativa per l'infanzia, le fiabe o la mitologia classica sopravvivono di generazione in generazione. Del resto, un film non è una ricerca filologica, ma un'azione artistica e creativa.
[...]

Capitolo 5
Creature di altri mondi

In diverse occasioni, Miyazaki ha dichiarato di non essere particolarmente interessato alla fantascienza in senso stretto: i viaggi interstellari, le profondità del cosmo, i mondi alieni non lo attraggono quanto le piante, le nuvole e i paesaggi terrestri. Anche quando parla di epoche lontane che anticipano il futuro (Nausicaä della Valle del Vento), che recuperano un passato remoto (Principessa Mononoke) o che mostrano luoghi in cui si sono sviluppate una flora e una fauna bizzarre (Laputa) le forme restano riconoscibili e riconducibili all'esperienza quotidiana.
In fondo, persino chi si avventura negli abissi dello spazio per affascinare e spaventare finisce per trovare ispirazione sulla Terra: è il caso, famosissimo, della mostruosa creatura di Alien, la cui bocca riproduce quella di un vorace insetto a cui pochissimi hanno prestato attenzione prima e dopo il film di Ridley Scott.
Tenendo gli occhi aperti sugli ecosistemi terrestri, riproducendo in modo realistico ciò che è irreale - o modificandolo leggermente ma sensibilmente rispetto al suo corrispondente reale - Miyazaki non intende sostenere il primato del nostro pianeta sul resto dell'universo; la supremazia di un'idea, una specie o un sistema su un altro è un concetto a lui estraneo: «Non amo una società che si pone come l'unica società giusta. La legittimità degli Stati Uniti, dell'Islam, della Cina, di questo o di quel gruppo etnico, di Greenpeace, degli imprenditori... Tutti pretendono di avere ragione e invece obbligano gli altri ad adeguarsi ai loro standard».
Nei precedenti capitoli si è detto che nei film di Miyazaki i rapporti tra individui diversi per sesso, età, cultura e convinzioni sono organizzati in modo non convenzionale, evidenziando pregi e difetti di tutti e sottolineandone il diritto a vivere. Un'ulteriore conferma di ciò viene dal fatto che il regista non fissa l'attenzione solo sui rapporti umani e non fa mai dei suoi personaggi, siano essi uomini o donne, l'arrogante centro della storia. Anzi, parlando di Porco Rosso ha affermato: «Sono disgustato dall'idea che l'essere umano sia il più evoluto, il prescelto da Dio. Credo invece che ci siano in questo mondo altre cose belle, importanti e per le quali vale la pena di lottare. Ho fatto del mio eroe un maiale perché ciò rifletteva al meglio le mie convinzioni».
In termini di resa visiva questo significa che un filo d'erba e l'espressione scocciata di Chihiro hanno lo stesso valore e dunque vengono riprodotti con la stessa cura: entrambi contribuiscono a dare spessore e profondità al film. Ogni personaggio umano è immerso nel mondo in cui vive e agisce: molte sequenze di Tonari no Totoro si aprono con un'inquadratura in campo lungo o medio che illustra il paesaggio che circonda Satsuki e Mei e spesso, per ribadire l'importanza di ogni più piccolo contributo, in primo piano è disegnato un dettaglio altrimenti invisibile, come lo stelo di un fiore su cui si arrampica una lumaca.
Con queste premesse, non stupisce di trovare nei film di Miyazaki una presenza costante di comprimari non umani per origine e non per scelta, come nel caso di Porco Rosso.
I comprimari possono essere animali più o meno magici, rei, kami, esseri meccanici dotati di sensibilità come i robot di Laputa, di personalità come il Castello Errante di Howl o di una vita biologica come il Soldato Invincibile di Nausicaä della Valle del Vento. In ogni caso, non sono «spalle» nel senso disneyano del termine: il loro ruolo non è costruito su un canovaccio immutato di film in film con lo scopo di allentare la tensione, strappare una risata o riportare all'ordine qualche gesto di insubordinazione.
Sebbene riconducibili a qualche specie terrestre, spesso gli animali di Miyazaki sono il risultato, armonico e coerente, della combinazione di più razze. In sostanza sono animali che non esistono, ma che potrebbero esistere se solo un dettaglio della loro evoluzione fosse stato modificato: stabilire se Teto, l'animale che Yupa regala a Nausicaä, sia una volpe, uno scoiattolo o un fennec non è importante. Allo stesso modo non ha senso chiedersi se Heen, la bestiola dal fiato corto e dalle occhiate eloquenti che compare ne Il Castello Errante di Howl come spia di Suliman e si rivela un prezioso alleato di Sophie, sia davvero un cane: scodinzola e abbaia afono, accompagna Sophie comportandosi come una versione ironica e acciaccata del cagnolino di Dorothy, la protagonista de Il mago di Oz, eppure ha zampe da volatile simili a quelle dello Shishigami.
Il fatto essenziale è che la somma di caratteristiche fisiche o psicologiche familiari sia qualcosa di inaspettato. Secondo il regista, infatti, ciò permette di azzerare ogni meccanismo di anticipazione negli spettatori: se Yupa o Ashitaka usassero come cavalcature un qualsiasi animale destinato allo scopo, dal cavallo al cammello all'elefante, l'immaginazione degli spettatori li collocherebbe in un contesto usuale. Ad esempio, un giovane giapponese in abiti tradizionali armato di frecce e su un cavallo corrisponderebbe a un samurai. E questo non deve succedere.
Yupa, quindi, deve spostarsi grazie a Kui e Kai, una coppia di uccelli simili a moa, resistenti, veloci, affidabili e soprattutto affezionati a colui che è un compagno piuttosto che un padrone. E Ashitaka deve condividere i pericoli del viaggio verso ovest con Yakul, una specie di stambecco dall'aspetto mansueto, devoto come un cane e coraggioso come un leone. Sebbene inseparabili, Yakul e Ashitaka non riescono a comunicare tra loro a parole e assomigliano un po' alla coppia composta da Kiki e Jiji nel momento in cui perdono la magia della comunicazione verbale. Ashitaka e Kiki sono la dimostrazione concreta che non occorre essere mononoke e correre con i cani selvatici per comunicare con gli animali: affetto e amicizia sopperiscono egregiamente alla logica del linguaggio.
Proprio Jiji, di tutti gli animali protagonisti, è l'unico ad appartenere a una specie precisa, perché la sua eccezionalità non sta nell'aspetto ma nel fatto di saper parlare. Jiji è il più indipendente - non a caso è un gatto! - e forse l'unico animale di cui vengono raccontati con continuità episodi che non prevedono la presenza umana (nella fattispecie quella di Kiki): è protagonista di una divertente e imbarazzata sequenza in cui osserva il marito di Osono al lavoro; subito dopo è in una casa sconosciuta in balia degli eccessi d'affetto di un vecchio cane; infine vince la resistenza della vezzosa Lily e, durante i titoli di coda, si ritrova padre di quattro cuccioli. In nessun caso, però, le parole o le reazioni di Jiji sono la caricatura semplificata di un gatto reale.

 
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