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Idee di cinema. L'arte del film nel racconto di teorici e cineasti
Giovanni Maria Rossi

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Alcol e cinema

Finalità meccanica

Non ci si interroga mai abbastanza sul perché il cinema si sia manifestato nel mondo. D'altronde il problema non è analizzare la serie d'induzioni e deduzioni, di riscontri e prestiti attraverso cui tanti sperimentatori hanno edificato una piramide di piccole invenzioni, coronata dalla messa a punto dell'apparecchio al quale almeno uno dei fratelli Lumière ha donato il suo nome. Ogni anno vengono registrate decine di migliaia di nuovi brevetti che sprofondano nel buio del mancato utilizzo, lo stesso in cui sarebbe potuta sprofondare anche la lanterna dalle immagini semoventi. Il punto è capire perché un tale strumento, nato come un gioco senza importanza come se ne vedono a dozzine a tutti i concorsi Lépine, si sia sviluppato, affetto da gigantismo, moltiplicandosi più rapido dell'ebbrezza, diffondendosi come una peste vittoriosa, divenendo simile a un mostro onnipresente, a un polipo che scava ovunque le sue caverne dove le moltitudini si nutrono di uno strano miscuglio di luci e ombre, di un brulicare di fantasmi. Questo pullulare, questa invasione irresistibile devono farci sospettare che lo spettacolo cinematografico risponda a una necessità profonda e che realizzi in qualche modo ciò che nel linguaggio cristiano si dice disegno provvidenziale e in termini hegeliani divenire storico. Si può tentare di portare alla luce e di situare lungo il cammino della civiltà il meccanismo proprio di questo momento del disegno o del divenire. Se una finalità esiste, essa è tutt'altro che semplice. In primo luogo perché durante i suoi primi dieci anni di esistenza lo strumento cinematografico non offre alcuna giustificazione della propria sopravvivenza e del suo testardo sviluppo. Affatica la vista ed è destinato - in tutta ragionevolezza, pare - al disprezzo della maggior parte delle persone ammodo. Sono necessari altri due lustri perché il cinema dia le prime prove della sua qualità ed efficacia. Così, per quasi un quarto di secolo, una macchina che produce solo oggetti difettosi suscita ovunque grande interesse e infatuazione, tanto che senza sosta si lavora per il suo perfezionamento e la si colma di denaro e di idee fino a trasformare la rana in bue. È a partire da questo momento che alcuni iniziano a intuire la vera missione del nuovo mezzo d'espressione; sono ancora così pochi e così poco ascoltati che, fino a oggi, la maggior parte dei lavoratori e anche degli estimatori del cinema ignora quasi del tutto il fine essenziale dei propri sforzi. All'inizio, gli stessi inventori non confidavano nel successo, cioè nell'utilità della loro macchina. Con sereno disinteresse, i Lumière dicevano: è una moda passeggera; il pubblico se ne stancherà. Oggi più nessuno contesta l'espansione dello spettacolo cinematografico come un fatto acquisito, ma quanti si preoccupano di sapere a quale necessità questo fenomeno risponda? Lungi dall'essere stato avviato dagli uomini su un cammino di cui essi, del resto, ignoravano tutto, sembra che il cinema stesso abbia, fin dalla sua nascita, trascinato gli uomini con forza irresistibile verso ciò cui è predestinato. Senza dubbio oggi possiamo intravedere almeno in parte quella finalità, ma solo dopo cinquant'anni di cammino cieco in cui essa ha agito senza mostrarsi, è esistita senza realizzarsi. Esempio notevole di telefinalismo e giustizia a credito in cui un essere meccanico gode in anticipo i frutti di meriti futuri e sconosciuti. Tutte le grandi invenzioni tecniche sono opere collettive: ciò significa che in buona parte è l'opera a creare se stessa. In materia di scienza o di arte pura possiamo ancora ammettere che un uomo che ha modellato una statua, composto un poema o concepito un nuovo sistema universale conservi, fino a un certo punto, l'illusione di esserne il creatore; ma l'egotismo diviene una spiegazione molto più discutibile quando si tratta di un processo di addizione, della creazione di un'apparecchiatura attraverso una serie di stadi successivi, i quali, con le loro qualità già acquisite, le loro mancanze e i loro difetti, orientano gli sforzi dei ricercatori occupati nella continua elaborazione dell'opera. Se lo si segue da vicino, il formarsi di ogni meccanismo minimamente complesso ricorda una pianta coltivata da generazioni di giardinieri che si tramandano da sempre i segreti dei loro progressi e i moniti dei loro fallimenti e che perseverano nel tentativo di far produrre a una specie vegetale fiori sempre più belli o frutti sempre più saporiti. Studiando la nascita dello strumento cinematografico si vede come esso abbia a poco a poco fissato i suoi caratteri ereditari, dominanti e recessivi, in maniera simile, come si sia adattato a un ambiente e poi a un altro, come abbia sempre mantenuto il suo volere oscuro, il suo genio sordo e tenace, per rimediare agli errori dei suoi scopritori, per istruire la loro ignoranza e per raggiungere la sua forma specifica. In effetti, i rozzi impresari dell'inizio del secolo, i ricchi produttori e sfruttatori di oggi e la maggior parte degli artisti non hanno certo indirizzato lo spettacolo cinematografico verso la sua vera vocazione. Anche costoro hanno manipolato inizialmente in modo casuale uno strumento di cui non sapevano a che cosa avrebbe dovuto servire: a riprodurre abusati tableaux vivants, a progettare ogni sorta di gigantesche cartoline, diorami semoventi, a fotografare il teatro, il circo, il music-hall, a illustrare conferenze, recital, concerti? Infine, i fondatori dell'arte del film finirono per dirottarlo su un sentiero sbagliato o secondario facendone la copia banale di ciò che l'occhio può già vedere da sé nonché il più volgare dei pubblici divertimenti e un buon procacciatore di denaro. Questo significava non tenere in alcun conto la personalità della macchina cinematografica, che iniziava a rivelare - quando ancora nessuno la sollecitava né sospettava che potesse farlo - di essere fatta per dare una rappresentazione del mondo del tutto diversa. Questa originale peculiarità del cinema era tanto inattesa e incompresa che i primi giochi di ripresa in prospettiva discendente o ascendente, i primi ingrandimenti, i primi flou, i primi accelerati furono ritenuti difetti della macchina o errori degli operatori, che per questo venivano spesso penalizzati. Dato che lo spettatore non aveva l'abitudine di vedere le cose in quel modo, prestargli uno sguardo diverso dal suo equivaleva a uno scandalo. Poco più tardi, qualche autore audace si accorse che questi effetti cinematografici, impiegati a piccole dosi, suscitavano il riso, che è il modo in cui l'uomo manifesta nel modo per lui più piacevole l'incomprensione di fronte a qualcosa che gli appare un'assurdità. Grazie a questo carattere un po' volgare di natura comica la fotogenia riuscì a introdursi furtivamente nelle opere filmiche e arrivò ad avere un ruolo non secondario nelle commedie di Mack Sennett. D'altra parte, per molto tempo la fotogenia indicò soltanto un mistero, perché nessuno si dimostrava capace di definire quando, come e perché una figura apparisse dotata di questa qualità. Ma dato che la fotogenia consiste nella proprietà di un fenomeno di acquistare una visibilità migliore, di apparire più bello allo sguardo dell'obiettivo che allo sguardo dell'occhio, non poteva certo essere l'uomo a indicare luoghi e modi di tale qualità, bensì la cinepresa stessa. Servì un'infinità di sondaggi, in un primo tempo casuali, nel corso dei quali si chiedeva allo strumento di vedere, registrare, giudicare e dare infine sullo schermo la sua risposta, spesso imprevista e deludente. Progressivamente la ricerca divenne meno aleatoria e si giunse alla definizione di una norma generale: la fotogenia è legata al movimento dell'oggetto cinematografato, dell'apparecchio e della luce. Questa prima grande legge estetica del cinema non è stata inventata né dai registi né dagli operatori; è stata dettata e imposta dallo strumento, che nel farlo ha obbedito soltanto alla sua natura, al suo temperamento, a una sorta di motivazione interna: dato che il cinema è il solo mezzo espressivo capace di tradurre il movimento con il movimento, sembra logico che sia questa la capacità che esso deve esercitare per eccellenza. [...]

 

Alcol e cinema

Da lungo tempo si conoscono e si utilizzano molti strumenti diversi dall'arte per calmare e rilassare l'intelletto raziocinante e per esaltare la facoltà analogica e sentimentale che emerge dal subcosciente. Di questi strumenti, il cui punto di applicazione è puramente fisiologico e che sviluppano in seguito un'azione stupefacente sulla ragione e stimolante sulle istanze affettive, l'alcol è il più diffuso. L'ubriaco che urta contro un lampione, che gli fa delle rimostranze, che finisce per insultarlo con violenza certo surrealizza quell'ostacolo, ritenendolo un essere malevolo, responsabile delle infelicità passate e future, simbolo di tutte le costrizioni e di tutte le ingiustizie che un ordine detestato impone alla vita. A causa di un pudore che resistette al loro desiderio di scandalo, i surrealisti non osarono promuovere apertamente l'intossicazione alcolica, che tuttavia crea uno degli stati mentali in cui l'uomo sperimenta con più facilità una mescolanza perfetta dell'azione esteriore e del sogno interiore. La rivoluzione surrealista si verifica, ogni giorno e in modo completo, grazie e attraverso innumerevoli bevitori, nel mondo intero. L'ubriaco che insulta un lampione agisce come un poeta interamente posseduto dalla sua ispirazione. Se la morale ci ha insegnato a ridicolizzare e disprezzare questo tipo di delirio, esistono popoli che lo rispettano e lo considerano sacro. Del resto non è necessaria l'ubriachezza estrema per rendersi conto della surrealizzazione introdotta dall'alcol, che non necessariamente porta a scambiare segnali stradali per belve selvagge. Sarebbe lungo l'elenco dei talenti riconosciuti - scrittori come Baudelaire o Poe, filosofi come Nietzsche, matematici come Hamilton - che sentivano che un certo grado di ebbrezza costituiva una condizione favorevole alla creazione artistica o scientifica. Ciò a prescindere dall'origine dell'ebbrezza: ma l'alcol rimaneva il mezzo più sicuro e il meno costoso per ubriacarsi, quello più disponibile e relativamente meno nocivo. Banalmente, l'uomo beve "per annegare il suo dolore", cioè cerca di alleviare un disturbo, un'irritazione, una depressione dovuti a insoddisfazioni più o meno gravi e numerose, chiedendo all'alcol uno stimolo delle tendenze istintive e affettive. Queste invadono allora l'immaginazione e la attivano, la dominano, la organizzano in fantasticherie allucinatorie in cui il bevitore può avere l'illusione di vendicarsi delle avversità e anche il coraggio di cogliere realmente un frutto proibito. Nell'ebbrezza la rappresentazione logicamente ordinata e criticata, subordinata alle relazioni con il mondo esterno, è indebolita, offuscata, a volte annientata a favore di una rappresentazione governata dalle analogie dei sentimenti e totalmente sottomessa ai bisogni delle passioni. Se gli uomini non si sentissero così imbrigliati dall'organizzazione razionale della loro vita quotidiana, così tirannizzati dalla necessità di adattare la maggior parte dei loro pensieri a questo stesso ordine razionale, non sarebbero nemmeno così inclini, talvolta così costretti, a bere per stimolare e sviluppare in se stessi un onirismo riposante e consolante, uno stato di violenta poesia. Allo stesso modo, coloro che creano fanno appello all'alcol per strappare la mente alla consuetudine del funzionamento deduttivo imposto dalla civiltà, che, nella misura in cui può fornire una critica rigorosa e una dimostrazione perfetta, può opporsi a qualsiasi invenzione. Artisti, scienziati, filosofi chiedono all'intossicazione alcolica un allentamento del controllo razionale dell'intelligenza e la conseguente acquisizione, attraverso il pensiero, di un modo di procedere più fantasioso, autorizzato a immergersi nelle feconde e sconosciute profondità della coscienza per trovarvi accostamenti inattesi e intuizioni innovatrici, il cui carattere di scoperta consiste essenzialmente nel non essere giustificate da niente di razionale. Senza dubbio non tutti gli inventori provano, certo non con la stessa intensità, il bisogno di accrescere in modo artificiale l'apporto analogico del loro subcosciente, che può essere già così prolifico e così attivo da non potersi sottrarre alla più stretta censura logica senza rischiare di svanire in follie inutilizzabili. Ma le eccezioni non invalidano la regola: le produzioni più originali dello spirito sono sempre opere deliranti. E in molti individui questa paranoia non raggiunge una sufficiente originalità creatrice che grazie all'aiuto di un mezzo per provocare ebbrezza, inibire il ragionamento, stimolare i ricordi di impressioni ed emozioni, legittimare tutti i collegamenti di empatia, somiglianza, vicinanza. Nell'ebbrezza comune come nell'intossicazione ricercata da alcuni intellettuali, l'alcol - come il cinema - agisce aiutando i paranoici deboli a costruirsi il delirio di cui hanno bisogno. Così si può dire che anche l'alcolismo abbia una missione "storica" o "provvidenziale" da compiere, ciò che del resto è probabilmente vero per tutte le malattie. Sembra inutile insistere sullo stato d'intossicazione alcolica a cui è giunta l'umanità, soprattutto nel mondo civilizzato, di cui un'abbondante letteratura, romanzesca e medica, non cessa di dipingere gli effetti. Se tra questi effetti ci sono esempi di distruzione, di cui approfittano le dottrine della temperanza, bisogna però riconoscere che qui come altrove, sempre e ovunque, quello che di solito definiamo un male si trova iscritto e compensato in una finalità più generale, in una necessità che di solito definiamo come un bene. I benefici dell'alcol, cioè la sua utilità, consistono nel favorire la produzione di un delirio d'interpretazione irrazionale in mentalità la cui attività cosciente è quasi del tutto assoggettata al formalismo logico e all'interpretazione razionale. Anche quest'ultima è un delirio, ma diverso e in qualche modo opposto, che si rivolge all'alcol come a un guaritore: guaritore del bisogno e dell'impossibilità di sognare di cui soffrono gli artefici e le vittime di una civiltà che inaridisce e soffoca con il suo stesso progresso, che minaccia di divenire tanto più invivibile quanto più avanza verso la perfezione del suo carattere razionale. Così l'alcol ha incontrato un successo che è solo la dimostrazione della sua efficacia. Che i rimedi efficaci siano anche veleni, è cosa nota e non possiamo far nulla al riguardo. Esacerbato, l'onirismo alcolico può prendere le forme fin troppo note della zoofobia allucinata, del delirio furioso. Casi del genere esistono, ma non sono gli unici e la loro eccessiva notorietà è dovuta soltanto al loro carattere pittoresco o drammatico. In realtà i deliri suscitati dall'alcol non presentano alcun carattere psicologico specifico. Un aforisma celebre afferma giustamente che ognuno delira con ciò che già possedeva in sé. Il collerico che padroneggiava le sue reazioni irose si abbandona al suo temperamento, come il timido che non osava esprimersi si lascia andare a lacrime e abbracci. Vecchie paure infantili tornano alla luce e fanno sorgere serpenti o topi da forme appena vagamente somiglianti, o resuscitano brandelli di tradizione religiosa nell'ateo incitandolo a scoprire miracoli, a pronunciare atti di fede e contrizione. Succede la stessa cosa nel delirio di una febbre infettiva, in quello del risveglio dopo la narcosi, in qualsiasi incubo. Simile a tutti i deliri e a tutti i sogni, il delirio alcolico dà un corso più o meno libero, più o meno simbolizzato, alle tendenze profonde dell'animo alle cui manifestazioni si oppone di solito il controllo dell'intelletto estrovertito. È nota la sincerità degli ubriachi, che non sanno tenere un segreto e soprattutto non quello relativo alla loro personalità. Sono sufficienti da dieci a quaranta grammi d'alcol per ottenere una psicanalisi dirompente e tanto sincera da dispensare l'osservatore dall'intervenire con domande. [...]

 

 
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