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Poesia è teatro

Dialetto e poesia: scene dell’altrove
di Renata M. Molinari

Procedendo nell’esplorazione delle incursioni poetiche nel teatro italiano ci rendiamo conto che, aldilà del mero censimento dell’esistente e della sua complessità, il confronto con le esperienze ci spinge sempre più verso le intime ragioni di questo innesto; pian piano capiamo che la domanda non è più sulla frequenza e i modi degli incontri fra poesia e teatro, oggi, ma su ciò che li rende necessari.
Nel chiederci che cosa cerchi il teatro nella poesia, spesso troviamo risposte che ci parlano di quello che spinge e orienta la poesia verso il teatro; domande e scoperte che si rincorrono da un polo all’altro del nostro campo d’azione e che sembrano generare, almeno a seguire l’andamento degli interventi raccolti in questo volume, un’altra questione ricca di sorprese: "che cosa cerca il teatro nel dialetto?", o meglio, "come mai, cercando poesia, il teatro oggi incontra il dialetto?".
Sì, perché, a ben guardare, la lingua poetica sembra comportare, sulle nostre scene, un progressivo "slittamento" verso il dialetto; e analizzando questi slittamenti ci ritroviamo a ripercorrere, con un fuoco privilegiato sulle lingue e la loro composizione, molte delle domande che la gente di teatro si è posta sul proprio "fare", in questi anni di crisi. Una crisi che invoca rinnovamento, e spesso lo genera proprio attraverso l’esplorazione di qualità e natura della lingua parlata – e agita – sulla scena.
È difficile e insidioso cercare di riproporre questa esplorazione attraverso la pagina scritta, o comunque attraverso un approccio argomentativo: difficile, perché siamo costretti a un costante lavorio di traduzione da un codice linguistico all’altro, insidiosa perché ci muoviamo su un terreno ancora non sufficientemente dissodato; e in questo movimento oscilliamo fra le trappole della catalogazione, con la tentazione di leggere in maniera "evoluzionistica" i fenomeni analizzati, e le trappole della fascinazione artistica, che ogni pratica riduce ad unicum, togliendoci non solo la possibilità di una corretta contestualizzazione storica, ma anche quella dell’esplorazione di generi e modelli formali, attraverso percorsi – e approdi – esemplari. Sembra di essere in un gioco di specchi senza fine, che acceca e illude, e comunque moltiplica le prospettive, a partire dalla prima, impertinente e pur necessaria domanda sulla poesia a teatro...

Quando il dialetto si propone all’ascolto, quando diventa gesto e postura che sostanzia la presenza di attori e autori in azione davanti a noi, allora appaiono evidenti le ragioni della sua scelta a teatro e la natura – pur multiforme – del suo legame con la poesia. È chiaro che sull’intima necessità che percorre l’intreccio circolare fra teatro, poesia e dialetto, gli attori e le azioni (teatrali o poetiche) tracciano percorsi molto più limpidi di quanto possa fare una riflessione a margine.
Riflessione comunque stentata, perché, e qui siamo già nel cuore delle nostre considerazioni, il dialetto a teatro (nel teatro che qui prendiamo in considerazione) è sempre laboratorio di una ricerca in divenire, artificio che parla dell’identità nelle differenze, e propone, nel "tremolio della carne" e nelle "parole nutrite di terra" (raccolgo qui due indicazioni di Ermanna Montanari e di Mariangela Gualtieri), un gesto radicato e insieme la consapevolezza del suo spaesamento. Insomma, il dialetto, teatralmente proposto, non diversamente da tanta poesia a teatro, ci mette di fronte a un "altrove" che parla di mancanze e necessità. [...]


La lingua della terra
di Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi

Mariangela Gualtieri
Vorrei aprire il mio intervento con una riflessione sulla parola poetica e la lingua corrente.
Penso che la lingua corrente sia una lingua che finge di poter dire tutto, ma in realtà fallisce sempre nel suo tentativo. Resto sistematicamente delusa dalla lingua corrente. Il verso, invece, non mi delude. Mi permette di dire ciò che mi sta a cuore, di dirlo senza svelarlo del tutto, di dirlo e mantenerne la densità.
Lo stesso vale per il dialetto, perché il dialetto è una lingua che non finge: passa sempre attraverso le cose, possiede le parole della concretezza. Il dialetto sa bene che certe cose non si possono dire, e non prova neppure a farlo, non ha in sé i termini per affrontare l’impresa. È come se gli mancasse tutta un’area di discorso. La mancanza di parole astratte, nel dialetto, sta quasi a suggerire che c’è qualcosa che la parola non può dire e, come ogni mancanza, sottolinea in realtà l’oggetto mancante.
Io credo che l’unica lingua all’altezza del teatro sia il verso. Credo che il teatro sia il luogo in cui il verso possa vivere in tutta la sua bellezza e la sua forza rivoluzionaria. Credo che il teatro implori, si abbellisca, diventi più comunicativo in presenza del verso. Nei fatti, però, raramente il verso in teatro funziona. Anzi, il teatro in versi è spesso una noia terribile.
Che cos’è la parola poetica? Si tratta di una domanda inesauribile, nessuna definizione può soddisfarla. Nel contesto teatrale è forse interessante dire che, fra le altre cose, la parola poetica ha la caratteristica di essere una parola veritiera, cioè una parola che non mente, perché se la poesia mente, manca di se stessa: diventa "il poetico", che è un luogo lontanissimo dalla poesia. La parola poetica è una parola che sgorga dalla verità di chi scrive. Che cosa ci fa dunque una parola simile nel luogo dell’hypokrités, nel luogo della finzione?
Quando la parola poetica arriva in scena, è necessario che l’attore sappia come porgerla, come percorrere la sua verità. Quando i poeti leggono le proprie parole, ne comunicano quasi sempre l’intensità. Gli attori, invece, ne restano scollati, come se non sapessero dove metterle. Per questo, spesso, la parola poetica fallisce con gli attori. Mi sono interrogata a lungo su questo fatto, cioè sul perché l’attore, anche il bravo attore, non riesca quasi mai a rendere in scena il verso. Tornerò successivamente su questo argomento.
Io sono nata come poeta che leggeva i poeti, e questo accadeva in scena. Credo infatti che vi sia una lettura ispirata quanto la scrittura. Solo dopo ho cominciato a scrivere. Sono molto grata al teatro perché la mia poesia è nata dentro il teatro, chiamata dal teatro: penso che il lavoro di Cesare Ronconi sia stato maieutico (nell’originale significato "ostetrico" di questa parola) per i miei versi. Cesare Ronconi mi metteva per ore davanti a un microfono, mentre gli attori facevano il loro training di riscaldamento. Io leggevo. Ricordo che ho iniziato leggendo Rilke.
Ero molto a disagio davanti al microfono: avevo un forte accento romagnolo, una vocina incapace di reggere picchi forti e alti, e anche nei registri sottili le consonanti, soprattutto le labiali, quasi battevano contro il microfono provocando una specie di piccolo, fastidioso colpo. Poi le "s" sibilavano terribilmente, le dentali erano troppo violente, e praticamente ogni consonante aveva, davanti al microfono, una particolare stonatura. Sentivo che qualcosa non funzionava e avrei voluto migliorarmi tecnicamente. Ma la preoccupazione di Cesare non era di natura tecnica. A lui interessava il punto di emissione della parola, cioè che il mio modo di dire le parole fosse veritiero, che fosse veritiero il mio respiro. Un percorso per arrivare a un punto in cui il mio io fosse dimesso e disadorno, non solo senza compiacimento, ma conscio della propria nudità e pochezza. Dunque quella nudità andava raggiunta, raggiunto il punto da cui accogliere la parola poetica e da lì riconsegnarla, cioè riscriverla. Forse, frequentando un percorso per abitare la nudità, si è poi messa in moto in me la scrittura.
Ho capito che bisognava "abitare una dimissione" e scrivere a partire da lì, da quel punto: una parola veritiera, un attore veritiero, e un regista capace di guidare gli attori alla scoperta del loro punto veritiero. Tutto questo però ha poco a che fare con lo spettacolo, riguarda piuttosto il teatro come operazione rituale. In origine, almeno questo ci dicono i maestri, tutte le operazioni artistiche erano dei riti, e lo scopo del rito era quello di sacrificare l’uomo vecchio e farne nascere uno più nuovo. Tutta la mia vita teatrale mi ha chiamata a un miglioramento della mia qualità sottile, se così posso dire, come se il dono di sé sulla scena andasse fatto a partire da un sé che continuamente si rigenera e si abbellisce o tenta di farlo. Io credo vada fatta una distinzione fra la società dello spettacolo e quella del rito, fra un teatro che racconta o mostra e un teatro che rivela, fra chi intrattiene e chi invece tenta un tocco dentro il magma profondo dello spettatore.  [...]

 
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