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La vocazione teatrale

Introduzione: La vocazione teatrale, un laboratorio e molti incontri
di Renata M. Molinari

[…]
Il gruppo al lavoro: camminare assieme, per comporre
Dicevo, all’inizio di questa presentazione: abbiamo un tema e una generica condizione di «laboratorio teatrale»; spunti, intuizioni, esperienze, e la voglia di intrecciarle. Ma quale laboratorio andiamo a realizzare, con quale metodologia?
Alcuni cardini li avevo chiari, prima di iniziare, e li ho già nominati: giovinezza e durata, vocazione e mestiere, le visioni di teatro, la solitudine e il coro, le radici del fare teatrale..., altri si sono definiti in corso d’opera: il camminare, come prima, elementare qualità di presenza e movimento, e la composizione (la composizione corale e «in movimento»), come struttura del lavoro.

All’inizio, a Milano, il lavoro si è configurato come un laboratorio di drammaturgia: comporre testi e strutture performative su un tema dato. Sono nati i progetti degli allievi drammaturghi e registi, è iniziata la loro trasformazione a contatto con il lavoro dei compagni attori. La trasformazione dei progetti, dei testi, è il vero banco di prova per un laboratorio di drammaturgia. E l’incontro con tanti compagni di lavoro fin qui sconosciuti può mettere a dura prova l’autostima e la consapevolezza teatrale dei giovani autori. Hanno lavorato a Milano, sì, ma il vero cimento inizia a Cividale.

Le visioni di teatro: quando, come hai riconosciuto che eri di fronte al teatro; quando ti sei riconosciuto nel teatro che vedevi? Questo sarà un esercizio per tutti i partecipanti. Esercizio di narrazione? È una possibilità, ma non esattamente quella che vorrei praticare, anche se dalla narrazione si dovrà passare, ma con moderazione. Questione di gusto teatrale, certo, ma anche il realismo di chi sa di dovere guidare giovani che parlano lingue diverse, e che – questo io vorrei – dovranno sempre usare la propria lingua, per lavorare assieme agli altri, che parlano, a loro volta, la propria lingua. Tradurre, tradursi, come una strada maestra all’interpretazione. Anche questa è una possibilità, per il laboratorio e i suoi partecipanti.
Bisogna poi fare attenzione a non cadere nella trappola della autorappresentazione e del compiacimento teorico. Una visione di teatro non è un’idea di teatro; può presumerla, evocarla, ma vive di vita propria; così come una chiamata non coincide immediatamente con un programma di lavoro o di vita. Bisogna semplificare, ancora una volta. Semplificare e mettersi al servizio, reciprocamente, di quello che proponiamo: farsi custodi, e non protagonisti del lavoro.

I custodi e la traduzione. La presenza di diverse lingue nel gruppo di partecipanti ci ha fatti concentrare sul problema della traduzione: come trasformarla in lavoro scenico. Ridurre al nucleo essenziale le proprie proposte, dare tempo al compagno di intervenire, senza perdere in fluidità, avere appuntamenti precisi, da rispettare e a cui potersi ancorare, giocare con le differenze, recuperare le forme retoriche... Molti problemi, molte possibilità.
Si cerca di capire quello che viene detto e si crea una situazione in cui si lavora sempre (almeno) in coppia affinché ognuno diventi custode della storia dell’altro, garante in duplice direzione: verso chi ascolta e verso chi parla...
Qualcuno dei partecipanti padroneggiava l’italiano e il croato, qualcuno lo sloveno, e assieme si sono veramente messi a disposizione del lavoro, quotidianamente (grazie!).

Lingue e pratiche si intrecciano, l’idea di fondo è quella di togliere gli eccessi: pulire, ascoltarsi e ascoltare. In costante movimento. Mi concentro sulla sottrazione: via la retorica, via i cliché, per lavorare sulla sorgente dell’azione, della parola, ma, soprattutto, della relazione. Bisogna trovare l’equivalente fisico di questa relazione, e su questo fondare il lavoro del gruppo, verso la costruzione di un coro.
Ma c’è già! È il camminare di cui parlavo prima: camminare, per presentare e presentarsi, come dice Peter Brook, camminare seguendo una guida, attenti al dove e al quando dell’azione, come insegnava Jerzy Grotowski. Guidarsi nell’esplorazione dello spazio e della memoria, come faceva Thierry Salmon, alla ricerca di un teatro «permeabile alla realtà».

Diceva Thierry Salmon: «Lavoro molto sulla “guida”, un esercizio appreso da attori che avevano lavorato con Grotowski. Gli attori vanno per la strada, in un luogo pubblico, vanno a lavorare fuori, nella realtà. Inventano storie, ricordi di personaggi, un vissuto a partire da quello che vedono e sentono. Questo esercizio si fa sempre in due. La guida consente di non imbrogliare. Quando si chiede a un attore di immaginare un personaggio, una situazione, spesso tutto ciò resta un processo mentale. Bisogna che ci sia una percezione reale dell’esterno, un vissuto reale. Poi la guida racconta che cosa è successo; c’è dunque interazione fra i due attori; è anche un lavoro sull’ascolto dell’altro. A volte sono i personaggi ad andare per la strada. Gli attori vivono il mondo esterno attraverso la logica del personaggio».

Lavorando con Thierry, ho potuto seguire molte modifiche dell’esercizio base della guida, a seconda dello spettacolo e delle fasi del lavoro verso la sua realizzazione. In particolare, per questo laboratorio, ho fatto riferimento al lavoro svolto per L’assalto al cielo, sulla Pentesilea di Kleist. In quel caso le giovani amazzoni erano sostenute (questo lavoro si è fatto durante i laboratori di preparazione allo spettacolo) da guide più anziane che al momento del racconto intervenivano direttamente a sostenere le loro pupille, rafforzando particolari (come a dire: «visto come è coraggiosa», «di’ anche questo», «non avere paura»), o minimizzando, o provocando, un po’ alla maniera delle presentazioni dei personaggi che Thierry Salmon aveva realizzato in Autour du Public, da García Lorca.
La fusione fra il camminare, la percezione in movimento (in relazione), e l’esercizio delle guide, qui trasformate in custodi-traduttori, è diventata la struttura portante di tutto il lavoro, come si può leggere nelle pagine che seguono; e soprattutto è diventata la partitura per una nuova (per me), possibile composizione corale.

La composizione, dunque. Nella pratica abbiamo incrociato in una prima fase le tante visioni individuali – o i sintomi vari della vocazione teatrale, come spunti per l’elaborazione di microdrammaturgie: immagini, testi, relazioni nello spazio. Il tutto è poi restituito in micro-azioni, a due. Un performer, un custode che interagisce con lui. E una «messa in successione» in presenza del pubblico: due aperture al giorno, tutte con scalette diverse. Comporre, in presenza di spettatori, mette in condizione di responsabilità, attiva consapevolezza drammaturgica, crea una particolare qualità di memoria: radicata e in costante trasformazione.
Logica delle conseguenze logica compositiva... Si compone a vista e si ha la possibilità di seguire un tema, un leit motiv, un colore... Si tratta sempre di capire qual è la logica, quale il cuore di una frase dal punto di vista musicale e dal punto di vista semantico. Comporre anche luci e ombre, come in un quadro. Comporre per vedere e per fare vedere.
[…]

 

La vocazione teatrale 

[…] la vocazione si associa quasi sempre alla giovinezza. In realtà, se devo cercare un momento della mia vita associato alla vocazione, non lo trovo. Però sono 36 anni che, in maniera diversa, vivo facendo teatro. E questo aspetto della giovinezza e della durata è veramente la cosa che più mi interessa nel nostro incontro. E anche voi dovete farci i conti.
Lo dico per chi non mi conosce: in questi 36 anni ho conosciuto molti maestri. Ho cominciato con Eugenio Barba in Danimarca, non potevo usare né la mia lingua né l’inglese e, dovendo scegliere fra norvegese e danese, ho imparato una lingua di base fra le due. Dopo Eugenio Barba, l’altro maestro con cui, per destino o per caso, ho lavorato a più riprese è stato Jerzy Grotowski, in Polonia e in Italia.
Poi ci sono stati degli attori (attori-autori, attori-teatro) molto importanti per me; il più importante, con cui non ho avuto un rapporto diretto ma di fascinazione, è stato Carmelo Bene. Quel Carmelo Bene che diceva: «Dei maestri? Dei maestri elementari, sì. Sono quelli che servono veramente», e altri attori come Leo de Berardinis e Antonio Neiwiller. Il testamento teatrale di Neiwiller è fissato nel Manifesto per un teatro clandestino. Negli anni Settanta mi è capitato di vedere alcuni spettacoli di artisti straordinari: Tadeusz Kantor, Bob Wilson, Meredith Monk... teatri molto differenti e artisti molto differenti.
C’è un dato, nel fare teatrale, evidente a chiunque l’abbia toccato: quando sei davanti al teatro, lo riconosci. Può essere intrattenimento, ricerca, teatro dell’assurdo, teatro di parola, ma quando ci sei davanti lo riconosci. E penso che ciascuno di noi, qui, almeno una volta nella vita o in sogno l’ha visto. Quello che faremo in questi giorni sarà cercare di comunicare e restituire quella visione. Che può essere reale, con data e luogo precisi, o costruita, o trovata nelle parole di altri. In teatro non bisogna aver paura delle definizioni, ma cercare di andare in profondità, fino a trovare quella radice che ci consente di riconoscere che siamo in sua presenza.
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