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Idee di cinema. L'arte del film nel racconto di teorici e cineasti
Giovanni Maria Rossi

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Tracce

AVVERTENZA

Tutto il volume è corredato di un ricco apparato di immagini.
In particolare, i capitoli “La composizione” e “Il pensiero in azione”, di cui qui vengono riportati alcuni estratti, sono illustrati da fotografie di Roberta Carreri al lavoro esemplificative dei concetti esposti.


LA COMPOSIZIONE

La composizione con gambe e piedi, braccia e mani è un altro principio che ha fatto parte della prima stagione del mio training.
Suo obiettivo è quello di aiutare l’attore a liberarsi dagli automatismi della vita quotidiana, nella quale vige la norma di ottenere il maggiore risultato compiendo il minimo sforzo. Se devo andare da A a B, scelgo il tragitto più breve: la linea retta. Nel training vale invece la regola opposta. Se devo andare da A a B, inizio procedendo nella direzione contraria, creo un contro-impulso e un cambio di direzione, mi muovo lungo linee curve o a zigzag. Creo momenti di sorpresa, peripezie, prima di arrivare alla mia meta. In questo modo, danzando con i miei sats, mi abituo a non anticipare l’azione.

Da neonati abbiamo esplorato le possibilità delle nostre mani e dei nostri piedi, ma, dal momento in cui abbiamo imparato a camminare, ci siamo impegnati a utilizzare il nostro corpo nel modo più funzionale.
Con il tempo siamo diventati così abili da poterci permettere di camminare senza nemmeno pensarci. Camminare è entrato a far parte della tecnica quotidiana del corpo e, come tale, si è trasformato in un automatismo.
Lo scopo del lavoro di composizione con le gambe e i piedi è quello di sperimentare nuove possibilità di spostare il corpo nello spazio usando immagini mentali capaci di risvegliare associazioni fisiche. Per esempio, accarezzando il terreno con tutto il piede; facendolo avanzare come un aratro che solca il suolo; camminando su una lastra di marmo sotto il sole del meriggio; marciando come un militare russo; usando la punta del piede come un cane che annusa una traccia; camminando in punta di piedi come Gatto Silvestro; retrocedendo e scalciando le onde davanti a me; spostando sabbia ai lati; camminando come se i piedi fossero serpenti; facendo grandi passi come un samurai.

Nello stesso modo posso lavorare con le braccia e le mani. Le mani che usiamo tutto il tempo, ma con cui raramente danziamo, possono per esempio assumere l’aspetto di farfalle che giocano sull’abisso; onde sul mare lontano; fuochi d’artificio; frecce che scaglio dal petto; granchi pronti al combattimento; un diadema che splende sulla mia testa; la corolla di un fiore che si apre; pesci che guizzano in uno stagno; foglie che cadono dagli alberi; un pupazzo di neve che si scioglie; un salice piangente nel vento.

La mia attenzione è rivolta alle mani o ai piedi. Ma queste non sono le uniche parti che muovo: tutto il corpo è impegnato quando lavoro con il principio della composizione.
Per ogni immagine cambio direzione e velocità nello spazio, cercando di evitare quelle pause che sono il tipico risultato dello sfasamento prodotto dalla scissione fra pensiero e azione.
Questo principio offre all’attore la possibilità di scoprire un modo di essere naturale sulla scena senza risultare naturalistico. La ricchezza di possibilità che si rivela nella composizione contribuisce ad aumentare nell’attore la sicurezza di sé e la capacità di reagire prontamente e in modo pertinente alle indicazioni del regista.


GERONIMO E IL TEATRO DI STRADA

Nel luglio 1976 è nato Geronimo, il mio personaggio di Anabasis.
Mi trovavo a Møn, una piccola isola della Danimarca, insieme a Jan Torp e a Silvia Ricciardelli. Quest’ultima aveva appena partecipato al seminario di sei mesi con la prima Brigata internazionale. Eravamo stati invitati per presentare interventi di teatro di strada nell’ambito di un festival internazionale.
Arrivavo direttamente dalle vacanze e non avevo con me un costume, solo un cappello a cilindro che avevo comprato in un negozio di usato. Jan, che era alto un metro e novanta e pesava novanta chili, mi prestò scarpe, pantaloni da smoking, camicia bianca e cravattino. Tutto era pulito e in ottime condizioni, ma mi stava decisamente grande.
Il problema della larghezza dei pantaloni fu risolto con un paio di bretelle rosse. Per rimediare alla loro lunghezza eccessiva, fui costretta ad accorciarli. Li accorciai però un po’ troppo. Così le mie caviglie nude finirono per spuntare, in tutta la loro vulnerabilità, da un paio di scarpe numero 44.
Ero abbronzata e con i capelli a caschetto. Ad aprile, me li aveva tagliati così una Yanomami nel cuore della foresta amazzonica, mentre eravamo in tournée in Venezuela con Vieni! E il giorno sarà nostro.
Quando mi guardai allo specchio, l’immagine che vidi riflessa mi fece pensare a uno di quei dagherrotipi di indiani del Nordamerica che, per farsi fotografare, indossavano eleganti vestiti europei risultando così stranamente buffi. Mi battezzai Geronimo, in onore del grande capo Apache. Geronimo è nato da un costume e dalla nostalgia per l’innocenza assoluta.

Era estate e Geronimo teneva tra i denti un filo di paglia mentre, aggrappato alla mano di Jan, guardava il mondo con gli occhi sgranati e sognanti. Il suo respiro era lento come i suoi movimenti, leggeri e fluttuanti. Avanzava per le strade al suono della fisarmonica di Silvia, la quale indossava, oltre allo smoking nero, una parrucca riccia e rossa che evocava quella di Harpo Marx. Guardando le persone negli occhi, Geronimo riusciva a oltrepassare quella distanza che di solito esiste tra due sconosciuti. Allungava lentamente le mani verso un gelato e lo prendeva a un bambino stupito. Ma, subito prima che cominciasse a piangere, interveniva Jan per imporre a Geronimo di rendere immediatamente il gelato. All’ombra di Jan, riscoprivo il mondo, guardandolo attraverso gli occhi ingenui di Geronimo.
La creazione di questo personaggio che, oltre a essere maschile, è anche un semplice di spirito, mi ha liberato da tutta una serie di cliché comportamentali femminili che si erano sviluppati nel mio lavoro.
Geronimo ebbe la possibilità di consolidarsi durante la settimana in cui rimanemmo a Møn. Fu lì che Francis Pardeilhan, che partecipava al festival come attore della compagnia inglese Ladies and Gentlemen, si interessò a me e al nostro lavoro.
All’inizio Geronimo era muto, ma, dopo pochi mesi, Jan trovò dei richiami per uccelli: un’anatra per lui e un corvo per me. Così siamo usciti dal nostro mutismo.
Quando nel 1978 Jan ci comunicò la sua intenzione di lasciare l’Odin Teatret, provai un immenso dolore. Geronimo avrebbe perso il suo punto d’appoggio, il fratello grande che lo proteggeva dal mondo e rimediava alle sue marachelle.
Il mio personaggio, ora solo, doveva sviluppare un’altra natura. Geronimo assunse così una dinamica molto più vivace e danzante. Il suo cappello, le sue scarpe e la sua «voce» (il richiamo per anatre che era stato di Jan) sono la sua maschera.
Geronimo ha stretto la mano a gente di ogni nazionalità e di ogni estrazione sociale. Se la sua voce spaventa cani o bambini, Geronimo si impaurisce a sua volta scappando o ritirandosi timoroso. [...] 


IL PENSIERO IN AZIONE

Quando entrai all’Odin Teatret, nel 1974, gli attori si allenavano con un bastone di legno lungo un metro e ottanta, con un diametro di quattro centimetri. Lo chiamavano il bushman. Anch’io cominciai a lavorarci. Eugenio ci chiedeva di creare esercizi che avessero un inizio, uno sviluppo e una fine precisi. La regola era quella di afferrare il bastone sempre al centro o a una delle estremità. Quando lo lanciavamo in aria e dovevamo riafferrarlo al volo a una delle estremità, aveva la tendenza a inclinarsi verso il suolo. Bisognava dunque fare un preciso sforzo fisico per tenerlo parallelo al pavimento. Per gli altri attori questo era relativamente semplice, ma per me, che venivo dai banchi dell’università, era molto difficile.
Il lavoro con il bushman faceva parte del training collettivo.
All’Odin Teatret non è mai esistita una differenza tra l’allenamento maschile e quello femminile. Nei primi anni tutti lavoravano sugli stessi principi. Poi, con il tempo, il training degli attori si è individualizzato.
Al mio arrivo nel gruppo, ogni attore aveva scelto come decorare il proprio bushman, come dipingerlo o adornarlo con nastri colorati. Dal training con questo oggetto è nato poi, a Carpignano, Il libro delle danze.
Dopo circa tre anni di training e di improvvisazioni con il bushman e le fiaccole, mi fu permesso di utilizzare un bastone da passeggio con pomello.
Il fatto di cominciare con un bastone grande e di passare poi a uno più piccolo potrebbe sembrare strano. Parrebbe più logico il processo inverso. Ma un bastone più piccolo, essendo più leggero, non mi avrebbe opposto alcuna resistenza e di questa avevo molto bisogno. Confrontandomi con una resistenza precisa, potevo più facilmente trovare la mia forza.
Cominciai ripetendo gli esercizi che facevo con il bushman, immaginando che il bastone da passeggio fosse altrettanto pesante. Poi abbandonai gli esercizi e iniziai a improvvisare liberamente. In virtù delle dimensioni più ridotte, la dinamica che si stabiliva tra il bastone da passeggio e il mio corpo era diversa da quella che c’era con il bushman, ed evocava delle immagini che potevo riconoscere, per esempio quella di una spada, di un arco, di una freccia, di un uccello...
È molto importante comprendere che queste immagini emergevano gradualmente dall’impegno fisico, attraverso un processo che posso definire «pensiero in azione». Non pensavo, cioè, le immagini a priori per poi ricrearle con il corpo. Al contrario, la mia mente riconosceva l’immagine creata in movimento dal connubio corpo-bastone. Quando ciò accadeva, le davo un nome e lo scrivevo nel mio diario di lavoro: guerriero, spada, ombrellino, remo, canna da pesca, mazza da golf, puntare la freccia, scoccare la freccia, uccello ferito, caduta nel lago...
Dopo aver raccolto un certo numero di immagini, potevo montarle in una successione di scene.
Eccone un esempio.
– C’è un guerriero nel bosco.
– Sente un rumore ed estrae la sua spada. «Chi è là?»
– Ah, è solo una dama che cammina lungo la riva del fiume con il suo ombrellino.
– In mezzo al fiume, c’è un vecchio che rema nella sua barca.
– È uscito a pescare con la sua canna da pesca.
– Quando il pesce abbocca lo estrae dall’acqua,
– e vede sull’altra sponda del fiume delle persone che giocano a golf.
– Un bambino, guardando la pallina bianca che vola in aria,
adocchia un’anatra,
la punta,
scocca una freccia e la colpisce.
– L’anatra ferita
cade nel fiume.

Per collegare tra loro queste immagini non seguo una logica lineare, bensì una logica evocativa che procede per salti. Questo tipo di logica, che ho sviluppato nel training, l’ho poi usata anche nelle improvvisazioni per gli spettacoli. 

 
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